Victor

Non so ancora per certo cosa mi spinse, dopo tanti anni di lealtà a quel vecchio, a provare un così grande senso di cieca perfidia, ma sì, posso ripercorrerlo istante per istante.
Erano le 20.30 e il vecchio, indaffarato come ogni sera a sbrigare gli ultimi affari, era chiuso nel suo ufficio al piano superiore. Ricordo che, dopo aver chiuso a chiave la porta della gioielleria, scesi per la stretta scalinata di legno, attraverso il seminterrato per depositare in cassaforte gli incassi della giornata e, proprio mentre percorrevo quei gradini consumati dai passi che la routine di ogni sera aveva sbiadito per vent’anni o più, montò in me la convinzione che sarei potuto riuscire nell’intento che andavo fantasticando da mesi e che per anni fece covare dentro la mia mente un disgusto opprimente per il vecchio, che pulsava come un cuore malato. Così, in brevi attimi di determinato intento, la certezza che la mia buona fede mi avrebbe tenuto lontano dalla più pallida ombra del ragionevole dubbio oscurò i miei timori e accese la scintilla delle mie azioni.
Svuotai la cassaforte dei beni più preziosi: svariati anelli di diamanti, collane e bracciali e sistemai il tutto nella mia borsa personale insieme a piccoli cammei incastonati di rubini finemente intagliati e a una grande quantità di contanti.
Aspettai fermo immobile sulla scala il tempo dovuto che impiegavo ogni sera per trascrivere gli ultimi affari sui miei libri contabili e, dopo un lungo istante, salii. Mi fermai vicino alla cassa mentre aspettavo che scendesse dal suo ufficio. Ripercorrendo mentalmente il mio piano, capii che il delinearsi dei dettagli che avevo immaginato avrebbero mosso a mio favore una fortunata serie di eventi che, non solo avrebbero scagionato la mia persona dal dubbio, ma mi avrebbero fatto passare come vittima insieme al “povero” ma ricchissimo Anton Sallet.
Il vecchio scese le scale. D’un tratto un dettaglio mi balenò in testa; mi innervosii per un istante, se ne accorse? No, come avrebbe solo potuto immaginare il tutto, ero sciocco a pensarlo, dovevo mantenere la calma, ogni ripensamento non era ormai da contemplarsi. Mi chiese se avevo sistemato nella contabilità le ultime spese per il restauro di un vecchio armadio, risposi di sì, freddamente, forse troppo. Ci avvicinammo alla porta, aveva notato l’agitazione? Mi guardava in modo strano, o forse era l’ansia che mi aveva fatto immaginare in lui il cambiamento quando invece era la vittima inconsapevole del mio intento.
Presi dalla tasca le chiavi cercando nel mazzo quella giusta, mi guardava ancora da dietro? Non lo sapevo, nervoso continuai a cercare e mi voltai con un piccolo scatto della testa a guardarlo. Avevo ragione: il vecchio mi scrutava attentamente con un vago sorriso sulle labbra. Socchiuse gli occhi indagatori che andavano a cercare segni di debolezza nel mio sguardo; mi voltai di scatto e quasi feci cadere le chiavi ma, fortunosamente trovai quella giusta, la infilai ed aprii la porta.
Uscimmo; eravamo in strada ormai, soli nel buio dello stretto viale. Nulla sarebbe potuto andare storto e lo sguardo che prima aveva fatto vacillare la mia calma era ora divenuto più sereno. Stavo per chiudere la porta alle mie spalle, quando sentii ancora i suoi occhi addosso a me. Mi voltai e gli vidi in volto lo sbigottimento di chi, solo in un bosco oscuro, vede una scure insanguinata su un morbido letto d’ erba o gli adunchi artigli un orrendo mostro.
Lo guardai, ci guardammo al lungo e non capii le ragioni di quello sguardo fin quando notai dalla mia borsa sbucare le candide perle bianche di una collana.
D’un tratto rimasi impietrito, completamente incapace di muovermi;  fissavo quelle perle sentendo il peso di quello sguardo giudicare quel fatto infame. Lui era immobile ad un metro da me; alzai gli occhi e sentii la mia paura scossa dal suo disgusto, la tracotanza delle mie convinzioni fatte vergogna dalla durezza del suo sguardo. Mi sentii come un cane messo all’angolo; fui scosso solo da un crescente senso di auto conservazione, per la mia vita, per la mia rispettabilità, per la mia libertà, e, cieco ad ogni conseguenza ,la ragione si offuscó.
Strappai di scatto la collana dalla borsa e lo afferrai feroce al collo, sbattendolo contro la porta. Gli morì un grido in gola nel tentativo di ribellarsi e, soffocando l’arroganza di quello sguardo, lo spinsi furioso nel negozio, scaraventandolo balbettante a terra. Lo colpii ciecamente con una scarica di calci: il vecchio ghignando smorfie di dolore si contorceva come un verme al gioco di un bambino sadico e con il cuore che mi esplodeva in petto mi gettai sopra di lui.
Gli tappai la bocca contorcendo le mie mani sul suo viso, come a plasmare un nuovo volto, o dar vita col mio furore ad un altro sguardo che non fosse quello. Srotolai la collana dalla mia mano e cinsi con quelle candide perle quel grottesco collo gonfio di lividi.
Strinsi più forte che potevo, il vecchio cercò di dimenarsi, colpendomi con con goffi e deboli gesti disperati: gli occhi rossi intrisi di paura, il sudore bollente che riempiva ogni ruga del suo viso e la lingua impazzita che si dimenava in respiri boccheggianti. Stava per morire, lo sentivo, lentamente si stava lasciando andare. Strinsi ancora più forte, fino a contorcermi in smorfie di sofferenza al pari della sua, quando le mie viscere ribollirono di un dolore atroce .
Disilludendo il mio trionfo sul suo corpo inerme, sparò un colpo dalla fodera della tasca. Fui schiacciato dalla sofferenza, ma ancor di più dall’orrore di rimanere anche un solo ottimo steso sul quel pavimento, dove avrei sofferto dell’indicibile pena della sottomissione, come un lupo braccato da un gruppo di goffi cacciatori. Raccolsi ogni forza e mi alzai da sopra il corpo del vecchio che immobile a terra con gli occhi pieni di terrore seguì i miei passi avvicinarsi alla cassa. Afferrai una piccola statuetta di pietra e mi avvicinai ansimante a quello che pochi minuti fa era il duro Anton e che ora singhiozzava piangente come un bambino. Mi misi sopra di lui e i suoi occhi mi dissero molto sulla vita , sulla morte. Non riuscii a sopportare la purezza di quello sguardo, che sgorgava in lacrime sincere, come a voler comprime ogni stilla del proprio essere in quel momento di cruda rassegnazione alla morte. Nessuna prosa, nessuna catarsi, nessun angelo azzurro sul viale del tramonto, né canti celesti a sfumare la fine, solo l’ignoto e l’oblio, che profondo si addensa nell’ora della fine.
E la fine arrivò, mutando quell’etereo trasalimento, nel volto inebetito di un viso straziato. Lo colpii sulle tempie, con tutta la veemenza di cui ero capace, e il suo viso si distorse in smorfie di sguardi isterici, come quelli di un bambino spastico. Morì, e nulla più. Mi alzai da sopra il cadavere;  le ferite che prima avevano straziato i miei sensi dal dolore, adesso, non sembravano più dolermi, anzi, fui rinfrancato dallo stesso notevole senso di determinazione che persi nel caos di quell’incubo e, nella mia mente, riaffiorò la freddezza di cui gli eventi sciagurati si erano fatti beffa.
In un istante balenarono in me gli atti di un grottesco copione, scritto dal pugno sconosciuto di una mente che non mi apparteneva, mi stupii mio malgrado, nel trovarmi così affine a quell’impronunciabile pensiero;  mi sentii guidato, come una marionetta al giogo di un burattinaio, ma quale che fosse la mano che tirava i fili, non potei tirarmi in dietro da quella volontà, se davvero volontà posso chiamarla adesso.
Calmo, lucido, scesi nel seminterrato, immerso in un torpore etereo di dolce tranquillità, come un bambino cullato in un caldo letto di seta. Senza ombre ora lo ricordo chiaramente quell’insondabile senso di calma, posso affermare a me stesso che di quella grazia non fu merito la mia abilità e più che della mia natura, gli eventi furono i frutti dell’inconoscibile.
Aprii la porta del ripostiglio dove da anni erano consumati nella polvere vecchi attrezzi arrugginiti, in tutti quegli anni non ero mai entrato in quella stanza, né avevo mai percorso quello stretto corridoio, ma ricordavo quell’odore stantio e i colori sbiaditi dei muri ammuffiti, ricordavo la grande rastrelliera degli attrezzi e la grande ascia consunta dal tempo. La presi, impugnandola con fare solito eppure sconosciuto e salendo le scale andai sorridente, a smembrare il cadavere.
Lo spogliai. Poi, partendo dalle gambe, troncai in due ogni suo arto, feci a pezzi le braccia e il busto, riducendo i suoi resti ad un cumulo di carne scomposta e la sua identità umana alle sembianze mutilate di grottesco manichino. Gli taglia la testa per ultima, e risi sperando che il gesto fosse servito a fargli godere, attimo dopo attimo, la scena e il mio sorriso finale come plauso allo spettacolo.
Malgrado le mie azioni, la certezza di uscire candido e vincitore dagli eventi di quella sera non mi aveva abbandonato; così, guidato da quel miserabile istinto, mi convinsi che se avessi nascosto i resti nella cassaforte, avrei guadagnato le ore preziose del mattino seguente, per andare più lontano possibile, senza mai più tornare.
Pensai di pulire la pozza sangue che bagnava il marmo della grande sala, avevo tutta la notte e l’impresa non sembra impossibile ma divorato dall’ansia, decisi di fuggire il più presto possibile. Deposi i resti in cassaforte, ma non appena incastonai la sua testa nell’ammasso scarlatto di carne, come il pezzo finale di un macabro puzzle, i suoi occhi si incrociarono ai miei e sembrarono guardarmi con fare inquisitorio. Trasalii, ritrovando per un lungo attimo la mia identità rubata e caddi in un profondo pianto disperato e in un ancora più profondo orrore dinanzi a quella mostruosa scena, come se mi si presentassero solo ora dinanzi agli occhi quegli atroci atti e la perfidia delle mie azioni. Credetti, o sperai forse, che l’orrore che stavo vivendo mi tenesse prigioniero come di un sogno e proprio come quegli incubi che ognuno di noi vive di tanto in tanto in qualche notte triste, cercai passivamente di fuggire da quell’abisso o di riemergere dall’infinito oceano che mi soffocava. Mi diressi verso le scale, mancava ancora molto all’alba e ciò che era rimasto della mia volontà premeva il mio istinto di sopravvivenza a fuggire da quell’incubo, ma non appena riuscii ad intravedere la grande stanza, vidi con tremendo stupore una sottile sagoma sbiadita nel buio della penombra. Mi fissava una grottesca faccia bianca; si avvicinò verso di me, immobile dal terrore come se vedessi in quell’entità la persona della morte stessa. Ma non era la morte, era solo un ragazzo e riconobbi in lui delle fattezze conosciute e per certi versi familiari. Come quelle impresse in una foto che distratto guardi, da vent’anni anni, o forse più, I tratti marcati, e quel sorriso sereno, un volto dagli occhi occhi chiari, due lampi azzurri, che guardano con timore e reverenza il viso distaccato di un padre autoritario,  Mi passò accanto e mi disse ” Grazie, Victor. Sei stato più docile di quanto mi aspettassi”. Scese le scale e scomparve al di là dello stretto corridoio.
Voltai lo sguardo alla stanza e risi e piansi a lungo, quando vidi al posto del sangue scarlatto, il cadavere di Anton, e quello mio.
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